L’acquisizione della Warner da parte di Netflix per 83 miliardi di dollari non è solo la più grande operazione nella storia dell’intrattenimento: è il segno di un cambio d’epoca che sta spaccando Hollywood. Mentre la Silicon Valley conquista lo studio che ha creato Batman, Harry Potter e la HBO, voci come quella di Jane Fonda denunciano un “consolidamento catastrofico” che minaccia creativi, lavoratori, libertà di espressione e pluralismo culturale. Un’industria che per un secolo ha raccontato il mondo scopre ora di essere essa stessa diventata una storia inquieta.
A Hollywood la storia accelera, ma le paure restano antiche. Quando nel 2010 Jeff Bewkes ironizzò sulla possibilità che Netflix potesse un giorno dominare l’intrattenimento, paragonandola all’“esercito albanese” che sogna di conquistare il mondo, nessuno immaginava che quindici anni dopo sarebbe stata proprio Netflix a comprarsi la Warner per 83 miliardi di dollari. Una cifra vertiginosa che sancisce il passaggio di consegne definitivo: la tecnologia non è più il futuro dell’intrattenimento — è il suo presente, il suo centro di gravità, la sua nuova oligarchia.
La trama è da film, ma gli effetti sono terribilmente reali.
La piattaforma nata spedendo DVD per posta diventa ora proprietaria del più antico e prestigioso studio americano, dei suoi marchi iconici — Harry Potter, Batman, DC —, della HBO e del suo tempio seriale. Una mutazione genetica dell’industria che non assomiglia a nessuna delle sue metamorfosi precedenti. Hollywood, per la prima volta, non guida la narrazione: la subisce.
E in questo vuoto d’aria si inserisce la voce di Jane Fonda, 87 anni, icona del cinema e militante irriducibile. Le sue parole non hanno il tono della nostalgia, ma della diagnosi: «Catastrofico. Minaccia l’intera industria dell’intrattenimento».
Non è un commento affrettato: Fonda aveva preparato una riflessione articolata già prima che Netflix risultasse vincitrice, denunciando una deriva industriale che travalica qualsiasi singolo accordo. L’ha aggiornata appena saputo dell’acquisizione, senza neanche nominare Netflix, come se il problema fosse più grande dei protagonisti.
Il cuore della sua accusa è semplice: il consolidamento estremo uccide la diversità.
Riduce i rischi creativi, restringe gli spazi democratici, impoverisce il mercato del lavoro.
E soprattutto sottrae al pubblico la possibilità di comprendere il mondo attraverso molteplici voci.
Perché, dice Fonda, quando pochi colossi controllano tutto il processo, “acquisiscono il potere di schiacciare le corporazioni — SAG-AFTRA, WGA, DGA, IATSE — rendendo più difficile per i lavoratori difendersi e per i creativi vivere del proprio mestiere”.
Ma il passaggio più inquietante è un altro:
«Non è l’impatto economico ciò che mi terrorizza, ma il modo in cui questa amministrazione usa le fusioni come strumenti di pressione politica e censura.»
Una denuncia frontale, che rivela l’altra faccia della medaglia: la concentrazione non è solo un problema industriale, ma un rischio democratico.
La paura della Fonda non è isolata. James Cameron si è espresso con prudenza ma con identica preoccupazione. Un gruppo anonimo di registi — nomi pesanti, si mormora — ha inviato al Congresso una lettera aperta denunciando la “morte del mercato cinematografico” e il rischio che Netflix elimini la finestra teatrale dei film Warner, trasformando il cinema in un semplice precontenuto per la piattaforma. Qualcuno ha definito la fusione un “cappio attorno al mercato cinematografico”. Un’immagine forte, ma non priva di fondamento: la sala, già indebolita dal modello streaming, ora rischia di diventare un residuo.
Sul fronte economico, intanto, la vicenda ha un altro protagonista: David Zaslav. Solo qualche mese fa sembrava sul punto di perdere tutto, superato dall’energia finanziaria di David Ellison. Invece è riuscito a orchestrare un’asta serrata, alzare il valore della sua compagnia, ottenere condizioni favorevoli e — soprattutto — garantirsi un posto al comando anche dentro la nuova Warner targata Netflix. Un capolavoro negoziale che rivela quanto questo passaggio d’epoca sia governato più dalla capacità di resistere che dall’innovazione.
La proposta di Netflix non era la più prevedibile, ma era la più solida: contratti pronti, penale record da 5,8 miliardi, nessun punto lasciato aperto. Paramount e Comcast volevano ancora negoziare quando, giovedì sera, il consiglio Warner votava all’unanimità per accettare l’offerta “Noble”, nome in codice della piattaforma.
Hollywood ama le storie: e questa, ironicamente, l’ha raccontata Netflix.
Resta l’incognita più grande: i regolatori americani.
L’amministrazione Trump dovrà valutare l’impatto di un’aggregazione che mette insieme due dei principali attori dello streaming. Netflix sostiene che il mercato è ormai “aperto e diversificato”, con YouTube e i creator come concorrenti reali; ma l’argomento potrebbe non bastare. Se le obiezioni antitrust rallenteranno l’operazione, sarà proprio là che si misurerà la portata politica del nuovo ecosistema mediatico denunciato dalla Fonda.
In fondo, non siamo davanti a una semplice fusione, ma a un cambio di specie: l’industria creativa più celebrata del pianeta sta cedendo la sua architettura decisionale ad algoritmi che misurano l’attenzione più che la qualità, la previsione più che la visione, la scala più che l’autorialità.
Il pericolo non è solo economico: è narrativo, culturale, democratico.
E forse è per questo che, in questi giorni, una parte di Hollywood festeggia l’accordo come inevitabile evoluzione del settore, mentre un’altra lo vive come l’inizio di un inverno lungo.
Non perché il cinema morirà — il cinema non muore mai — ma perché, per la prima volta, potrebbe smettere di essere un’industria libera.
Ed è questo, più di ogni cifra, che inquieta Jane Fonda: l’idea che Hollywood stia diventando la protagonista di un film che non ha scritto e che potrebbe non piacere al pubblico.
