Nel silenzio dei dossier riservati, l’Italia chiede di rallentare sull’accordo Ue-Mercosur. Non un rifiuto ideologico del libero scambio, ma una richiesta di tempo e di garanzie: reciprocità delle regole, tutela dei consumatori, rispetto per il lavoro degli agricoltori europei. È una posizione che interroga l’Europa sulla giustizia dei mercati e sul senso politico della globalizzazione, quando il commercio rischia di diventare diseguaglianza legalizzata.

L’Europa ama le firme solenni, le foto di gruppo, la retorica delle “grandi intese”. Ma talvolta la politica più responsabile è quella che frena la mano, non quella che stringe la penna. È questo il senso del “prematuro” con cui l’Italia guarda alla firma dell’accordo Ue-Mercosur, parola che pesa più di un veto e meno di una resa ideologica.

Il dossier riservato del centro studi di Fratelli d’Italia, circolato tra deputati e senatori, restituisce una posizione meno propagandistica di quanto si potrebbe immaginare. Non c’è l’eco di un sovranismo autarchico, né la tentazione di erigere muri commerciali. C’è, piuttosto, una domanda elementare e insieme scomoda: può dirsi equo un accordo che non garantisce le stesse regole a chi produce dentro e fuori l’Unione?

La parola chiave è “reciprocità”. Gli agricoltori europei — e italiani in particolare — operano dentro un sistema normativo tra i più stringenti al mondo: vincoli ambientali, limiti sull’uso di antibiotici, fitofarmaci, mangimi, controlli sanitari capillari. Tutto questo non è burocrazia fine a se stessa, ma il frutto di una scelta civile: tutelare la salute dei consumatori, la dignità del lavoro agricolo, la sostenibilità delle filiere. Se però quei medesimi standard non valgono per i prodotti che entrano nel mercato europeo, la concorrenza diventa asimmetrica e la globalizzazione smette di essere scambio per diventare penalizzazione.

Giorgia Meloni, nel faccia a faccia con i leader europei a Berlino, ha portato sul tavolo proprio questo nodo. Non una contrarietà di principio all’accordo, ma la consapevolezza che i benefici del libero scambio non sono neutri: possono creare crescita, ma anche ferite. E quando le ferite colpiscono settori strutturali — come l’agricoltura — non sono mai marginali, perché incidono su territori, comunità, identità produttive.

Il dossier ricorda che alcuni passi avanti sono stati fatti anche grazie all’insistenza italiana: meccanismi di salvaguardia, fondi di compensazione, rafforzamento dei controlli fitosanitari. Ma il punto è che queste misure restano, allo stato attuale, promesse non completamente finalizzate. Firmare ora significherebbe accettare un equilibrio incompleto, confidando che le clausole di tutela funzionino a posteriori, quando il danno potrebbe essere già avvenuto.

La questione delle “clausole a specchio” non è tecnicismo per addetti ai lavori. È una domanda etica prima ancora che economica: è giusto chiedere agli agricoltori europei sacrifici, investimenti, riconversioni ecologiche, se poi si spalanca il mercato a prodotti ottenuti con pratiche che qui sono vietate perché considerate dannose per l’uomo e per l’ambiente? È davvero progresso chiamare “competitività” ciò che in realtà è dumping normativo?

In questo senso, la posizione italiana si distingue anche da quella francese. Non un no ideologico, non una barricata identitaria, ma un sì condizionato. Un sì che chiede tempo, garanzie, simmetria. È una linea che prova a tenere insieme apertura e responsabilità, commercio e giustizia, Europa e territori.

Questa vicenda interroga un tema più profondo: che idea di sviluppo vogliamo promuovere? Un mercato globale fondato solo sull’efficienza e sul prezzo, o un’economia che riconosca il valore del lavoro, della salute, della terra? Rinviare una firma non significa rinnegare l’Europa. Talvolta significa ricordarle che senza reciprocità non c’è vera cooperazione, e senza giustizia non c’è pace sociale, nemmeno nei campi.