Dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, molti governi europei hanno scelto la via della “minima resistenza”: più spesa militare, concessioni commerciali, silenzi sui valori democratici. Ma la resa preventiva non compra sicurezza: alimenta le destre nazional-populiste, indebolisce l’Unione e trasforma l’autonomia strategica in uno slogan vuoto.

L’Europa ha imparato a muoversi come chi attraversa una stanza piena di vetri: passi piccoli, parole misurate, sguardo fisso sul volto dell’uomo dall’altra parte dell’Atlantico. Quando Donald Trump è tornato alla Casa Bianca nel gennaio 2025, la scelta sembrava binaria: affrontarlo oppure assecondarlo. Nella pratica, da Varsavia a Westminster, da Riga a Roma, ha prevalso l’istinto della resa preventiva: non la diplomazia tra pari, ma l’arte di “non farlo arrabbiare”.

È una postura che molti, nei palazzi europei, rivendicano come razionale. Il ragionamento è semplice: resistere avrebbe potuto costare carissimo. L’Ucraina avrebbe rischiato l’abbandono; la NATO un trauma; l’economia europea una guerra commerciale. Dunque: meglio ingoiare qualche umiliazione, comprare tempo, evitare l’escalation. E in effetti qualche risultato, a guardarlo da lontano, è arrivato: al vertice NATO dell’Aia (24-25 giugno 2025) gli alleati hanno promesso un impegno di spesa che arriva al 5% del PIL entro il 2035, e la rottura atlantica, almeno per ora, non si è consumata.  

Ma l’apparenza inganna. Perché la domanda non è se l’Europa abbia evitato il peggio; la domanda è a che prezzo politico abbia comprato questa tregua. E qui si scopre il punto cieco dell’“appeasement” europeo: non nasce solo dalla paura della Casa Bianca, nasce anche dalla paura di casa propria.

L’Europa di questi anni vive con un ospite fisso in salotto: una destra nazional-populista che non è più folklore, ma forza di governo o di opposizione maggiore in molti Paesi. Davanti a Trump, perciò, i leader europei non trattano soltanto con un presidente americano. Trattano con un “simbolo” che parla direttamente ai loro elettori più inquieti: l’uomo forte, il primato nazionale, la politica come braccio di ferro. Ogni concessione fatta a Washington diventa, involontariamente, materiale per la propaganda interna: se persino l’Europa “si piega”, allora l’Europa è debole; e se è debole, perché difenderla?

La trappola è tutta qui: per non irritare Trump, l’Europa si comporta come se l’idea stessa di autonomia fosse un lusso retorico. E così finisce per rafforzare proprio le forze che lavorano a svuotare l’Unione dall’interno.

Si vede anzitutto sulla difesa. L’impegno del 5% – storicamente enorme – è stato annunciato come prova di serietà. Ma in molti Paesi è anche un impegno politicamente tossico: significa scegliere, prima o poi, tra “pistole e burro”, tra missili e welfare. E quando un obiettivo appare dettato più dal desiderio di compiacere il presidente americano che da una pianificazione europea credibile, diventa benzina per chi vuole dipingere Bruxelles come subalterna e irresponsabile.  

Poi c’è il commercio, il terreno dove l’Europa avrebbe, teoricamente, il fisico del gigante. Il mercato unico e la competenza commerciale della Commissione potrebbero renderla un negoziatore temibile. E invece, nel 2025, l’Europa ha negoziato come una somma di paure nazionali: chi invocava prudenza per non alimentare i populismi domestici, chi spingeva per la linea dura, chi trattava quasi in proprio. Il risultato è stato un accordo che fissa un tetto tariffario statunitense del 15% sulla maggior parte delle esportazioni europee: un “male minore”, certo, ma anche la certificazione che l’Unione, quando viene pressata, si divide.  

E infine c’è il fronte più delicato: i valori democratici. Qui la sottomissione diventa silenzio. Nel 2025 la politica americana ha esportato in Europa un lessico aggressivo, schierandosi apertamente in campagne elettorali e attaccando i “cordoni sanitari” contro l’estrema destra. In un’Europa che si definisce comunità di diritto, la reazione è stata spesso un abbassare lo sguardo: non perché mancassero le parole, ma perché si temeva di perdere l’ombrello. Il che produce un effetto corrosivo: normalizza l’illiberalismo altrui e restringe lo spazio per combattere quello di casa.

L’Europa, in sostanza, ha scelto di sopravvivere giorno per giorno. Ma un continente non può vivere a colpi di gestione dell’emergenza. La politica estera non è solo prevenzione dei disastri: è anche costruzione di un’identità e di un potere.

La via d’uscita non è il gesto teatrale, né l’antiamericanismo di maniera. È qualcosa di più sobrio e più difficile: recuperare “agenzia”, cioè capacità di dire no quando serve, di organizzare alternative credibili, di non dipendere dal meteo di Washington. Significa, realisticamente, mettere in piedi un nucleo europeo di volontà e capacità sulla difesa; diversificare il commercio e i partner; rendere la sicurezza energetica una questione di sovranità e non solo di bollette; tornare a parlare con voce unica quando si tratta di interferenze e regole democratiche.

Perché aspettare “il dopo” – il 2029 o un’altra scadenza salvifica – è una superstizione geopolitica. E c’è una verità che la stagione Trump ha reso brutalmente evidente: l’Europa che rinuncia al potere di dire di no scopre presto che non le resta neppure il potere di dire chi è.