Nella Casa Bianca versione reality show, tra una battuta scomposta e un’autocelebrazione compulsiva, Donald Trump ha trovato il modo di dire la verità. Non una verità, ma la sua: brutale, opportunista, disumana.

«Lasciamoli combattere un po’», ha detto riferendosi alla guerra tra Russia e Ucraina, paragonando i due Paesi a “bambini che si odiano e fanno a botte al parco”. Solo che al parco, di solito, non si lasciano migliaia di cadaveri con braccia e teste sparse nei campi.

Trump, che aveva promesso di “fermare la guerra in 24 ore” e millantato “due tregue già pronte”, ora si atteggia a spettatore cinico, misurando i tempi della pace non su basi geopolitiche, ma su ciò che gli conviene raccontare nei suoi comizi. La sua politica estera non è strategia: è ratings. Se conviene mostrare i muscoli, lo fa. Se conviene cambiare discorso, lo cambia. Come quando, durante l’incontro con Friedrich Merz, ha spostato l’attenzione dai morti ucraini all’“autopen” usato da Biden per firmare documenti.

La verità è che Trump mente. E non solo per omissione, come quando ha “dimenticato” di dire che Putin gli ha risposto con un secco “devo reagire” all’attacco ucraino. Mente con disinvoltura. Il giorno prima aveva vantato il suo tentativo di evitare la ritorsione russa, ieri ha detto che in fondo è meglio lasciarli picchiarsi un po’, come se in gioco non ci fossero la sovranità di un popolo e la vita di milioni di civili.

Le sue bugie non sono errori: sono strumenti. Menti, poi correggi, poi cambia discorso. E intanto chi può, muore. È lo stesso schema usato per i dazi con la Germania: prima minaccia, poi arretra, poi accusa qualcun altro. Bluffa, come sempre. Ma stavolta le sue carte sono macchiate di sangue.

Dietro le sue parole — «sarò duro con entrambi i Paesi», «la scadenza è nella mia testa» — c’è la convinzione che la guerra sia una partita da gestire a colpi di tweet, minacce commerciali e ricatti. Eppure, mentre i negoziati veri richiedono mesi e diplomazia, Trump si atteggia a messia armato di clava e narcisismo.

Anche il richiamo alla morale, come sempre in bocca sua, è una farsa tragica. Trump si vende come difensore della civiltà cristiana, ma poi chiude le porte ai rifugiati, separa i bambini dai genitori ai confini, e costruisce muri come simboli della sua “giustizia”. È lo stesso uomo che ora dice: “forse Putin non è sincero, ma vedremo”. Sì, vedremo — dopo che i tank avranno raso al suolo altre città.

L’incontro con Merz, cancelliere tedesco in visita, si è consumato tra ambiguità, ipocrisie e battute fuori luogo. Quando Merz ha ricordato lo sbarco in Normandia come una liberazione dal nazismo, Trump ha scherzato: “brutto giorno per i tedeschi”. Perché nella sua mente, la storia non ha ferite: solo occasioni per fare battute da stand-up in tuta presidenziale.

E intanto, sul terreno, l’Ucraina resiste sotto nuove offensive russe, Kharkiv e Sumy vengono strangolate, e la popolazione civile paga il conto della geostrategia da casinò di Washington. La pace promessa resta un miraggio e i leader — da Salvini a Orbán, da Milei ai sauditi — che si erano già preparati per la foto con la colomba in mano, ora si ritrovano con la propaganda bagnata nel fango del Donbass.

Trump è l’uomo che voleva trattare Gaza, Teheran e Pechino come piazze immobiliari da strappare al miglior offerente. Ma mentre gioca, l’ordine mondiale crolla. Il bluff funziona solo se le controparti accettano il gioco. Ma qui non si tratta di poker: si tratta di esseri umani, di soldati mandati al massacro, di bambini senza casa.

«Lasciamoli combattere un po’», ha detto Trump.

Il problema è che — a differenza dei bambini al parco — qui nessuno ride alla fine. E qualcuno, ogni giorno, muore davvero.