In un momento in cui il mondo guarda attonito alla catastrofe umanitaria in corso a Gaza, con oltre 54.000 mortifame sistemica e un’intera popolazione ridotta alla sopravvivenza, il governo israeliano ha approvato 22 nuovi insediamenti in Cisgiordania. È la decisione più estesa dal 1993, anno degli Accordi di Oslo, e rappresenta molto più di un semplice atto amministrativo: è un chiaro passo politico verso l’annessione de facto dei territori palestinesi occupati.

Per la ONG israeliana Peace Now, si tratta di “un attacco diretto alla prospettiva di pace”. Eppure il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, è stato esplicito: questa espansione è “una misura strategica per impedire la creazione di uno Stato palestinese”. Di fatto, è una dichiarazione d’intenti: nessuna soluzione a due Stati, nessun riconoscimento di autodeterminazione per il popolo palestinese. Mentre Gaza brucia e muore di fame, la Cisgiordania viene silenziosamente smembrata.

La tragedia di Gaza, con centinaia di migliaia di sfollati e quasi mezzo milione di persone a rischio carestia secondo l’ONU, funge da copertura perfetta. Il dolore collettivo e il caos umanitario distolgono l’attenzione internazionale da ciò che sta accadendo nell’altra metà dei territori palestinesi occupati. L’approvazione degli insediamenti – alcuni in zone altamente sensibili come il Monte Ebal o il confine con la Giordania – non è una risposta alla sicurezza, ma una strategia per rendere impossibile una geografia coerente per un futuro Stato palestinese.

La Corte Internazionale di Giustizia ha ricordato a Israele l’obbligo di restituire le terre occupate, evacuare gli insediamenti e smantellare il muro in Cisgiordania. Ma la realtà sul terreno è l’opposto. Gli outpost, spesso costruiti senza permessi e poi legalizzati retroattivamente, sono protetti dai militari e dotati di servizi pubblici. È una pulizia territoriale a bassa intensità, ma sistematica e pianificata. In qualunque altro contesto, questo verrebbe chiamato per quello che è: un crimine di guerra.

A Gaza, intanto, si muore non solo per le bombe, ma per fame. L’OCHA ha denunciato che Israele e i suoi alleati stanno usando l’aiuto umanitario come leva militare per spostare la popolazione civile verso zone più facili da controllare. L’ONU si è rifiutata di partecipare a questo piano, che viola apertamente il diritto umanitario. La distribuzione degli aiuti da parte di una fondazione privata, sostenuta da Tel Aviv e Washington, ha causato morti, disordini e la denuncia di una “mercificazione della fame”: pacchi con scritte in ebraico distribuiti da un sistema militarizzato, mentre si spara sugli affamati.

La questione non è solo israelo-palestinese, è globale

Il 29 maggio 2025 passerà alla storia come la giornata in cui la normalizzazione della colonizzazione ha raggiunto un nuovo picco. Se la comunità internazionale continua a rispondere con il silenzio o con condanne senza conseguenze, si farà complice di un processo irreversibile. Non si tratta più di appelli alla pace, ma di un urgente richiamo al diritto e alla dignità umana.

In un mondo che ha smesso di credere nei principi che ha firmato nei trattati internazionali, resta una domanda: quale sarà la prossima linea rossa che ci rifiuteremo di vedere infranta?