Joseph Kony, il profeta della crudeltà: perché l’incubo dell’LRA torna oggi all’Aia
La Corte Penale Internazionale ha riacceso i riflettori su Joseph Kony, il capo dell’Esercito di Resistenza del Signore, responsabile di massacri, mutilazioni e rapimenti di decine di migliaia di bambini in Uganda. Il tentativo — fallito — di processarlo in contumacia apre una questione che riguarda non solo l’Africa, ma il sistema stesso della giustizia internazionale.
Ci sono figure che sembrano uscite da un incubo collettivo, e Joseph Kony è una di queste. Un uomo che per decenni si è proclamato “profeta cristiano”, mentre trasformava i Dieci Comandamenti in un lasciapassare per mutilare, rapire, stuprare, distruggere.
Un paradosso che solo l’Africa profonda — quella delle foreste e delle rivelazioni, delle milizie e delle visioni — riesce a raccontare senza metafore.
Kony nasce dalle rovine di un altro delirio religioso: quello di Alice Auma, la medium ugandese che negli anni Ottanta parlava con cascate e ippopotami, convinta di essere posseduta dallo spirito di un soldato italiano centenario annegato nel Nilo. Da quel sincretismo surreale, dal suo Movimento dello Spirito Santo, presero forma gli elementi che Kony avrebbe poi distorto fino alla ferocia: ecchi di Bibbia, nazionalismo acholi, animismo, divieti assurdi e un fanatismo che trasformava contadini in miliziani pronti a morire “per la purezza”.
Su quelle ceneri, nel 1987, nacque l’LRA, l’Esercito di Resistenza del Signore: cristianesimo distorto, violenza rituale, un culto della paura che rapì tra 40.000 e 80.000 persone, costringendo bambini a diventare carnefici di altri bambini, in un ciclo di terrore che ha lasciato dietro di sé più di 100.000 morti e due milioni di sfollati.
La firma di Kony non è solo la brutalità, ma la teatralità del male: tagliava orecchie e labbra alle sue vittime e le costringeva a mangiarle.
Una crudeltà antica in un’Africa modernissima, costantemente osservata e costantemente impotente.
Quando nel 2005 la Corte Penale Internazionale spiccò contro di lui 39 capi di imputazione, era già un fantasma. Da allora fugge, mentre il mondo parla di lui a ondate: un video virale, una missione statunitense che spende 800 milioni di dollari per tornare a casa con una sola prova della sua presenza — la vasca da bagno del profeta — e l’impressione di aver inseguito un’ombra nei bush del Congo.
Oggi L’Aia ci riprova. Non perché abbia trovato Kony, ma perché vuole almeno affermare un principio: che il male, anche quando scompare nella giungla, deve essere nominato, accusato, inciso nella memoria del diritto.
Per la prima volta, la Corte ha tentato di confermare le accuse in assenza dell’imputato: un gesto timido, simbolico, subito frenato dallo Statuto di Roma che vieta i processi in contumacia.
Ma il segnale resta: non è solo Kony il bersaglio. Sullo sfondo si intravedono nomi ingombranti: Putin, Netanyahu, altri capi di Stato difficili da raggiungere ma non da giudicare moralmente.
Eppure il cuore del caso Kony non è tecnico, ma umano.
È nelle voci dei sopravvissuti, come quella di Orit Cohen, che da anni denuncia un fratello intrappolato nella setta.
È nella storia di Dominic Ongwen, da bambino rapito e torturato a adulto diventato torturatore, poi catturato e condannato all’Aia: un destino che infrange ogni semplificazione tra vittima e carnefice.
È nei villaggi dell’Uganda settentrionale, dove ancora oggi si celebrano messe in memoria di figli che non torneranno.
La domanda che l’Aia non può ignorare è semplice e terribile: come si giudica un uomo che resta introvabile da quarant’anni? E cosa vale la giustizia quando la geografia la smentisce?
Kony non è solo un fuggitivo: è il simbolo di una giustizia internazionale che cerca colpevoli senza poterli catturare, che emette mandati d’arresto senza avere un corpo di polizia, che condanna il male ma non può afferrarlo.
Eppure, proprio per questo, il suo nome deve tornare in primo piano.
Perché le guerre africane, quando non fanno rumore, tendiamo a dimenticarle; perché i bambini soldato non hanno lobby; perché l’orrore, se non ha memoria, tende a ricominciare.
Kony è ancora vivo.
I suoi crimini anche.
E il mondo, ora più che mai, ha il dovere di ricordarlo — almeno questo.
