Il dibattito su multipolarità e declino americano distrae dal punto essenziale: oggi solo Stati Uniti e Cina hanno la massa economica, tecnologica e strategica per modellare l’ordine globale. Come nella Guerra fredda, la competizione tra due superpotenze ridisegna alleanze, stringe le periferie e rende sempre più difficile restare neutrali.

Per trent’anni abbiamo creduto di vivere in un mondo “senza centro”, fluido, aperto, regolato più dai mercati che dalle bandiere. Oggi quella stagione è finita. La politica delle grandi potenze non è tornata: in realtà non se n’è mai andata. A essere cambiata è la sua forma. Non un concerto multipolare, non una giungla anarchica, ma una struttura più secca e più dura: due soli al vertice, e tutto il resto che orbita.

Il potere conta. Conta sempre. Decide chi fa la guerra e chi la subisce, chi scrive le regole e chi le applica, chi interviene nelle crisi altrui e chi ne paga il prezzo. Ma conta anche come il potere è distribuito. L’unipolarità americana del dopo-1989 ha prodotto interventi diffusi, spesso unilaterali, dalla Jugoslavia all’Iraq, dalla Libia all’Afghanistan. Il bipolarismo, invece, ha un’altra logica: meno avventure periferiche autonome, più ossessione reciproca; meno illusioni universalistiche, più difesa feroce delle sfere di influenza.

Oggi questa logica è tornata. E non perché il mondo sia diventato più affollato di potenze, ma perché – dati alla mano – solo due Stati superano la soglia critica che trasforma un grande Paese in una superpotenza. Gli Stati Uniti restano il leader del sistema. La Cina, però, non è più un “quasi”: è già dentro il club, e con margini che superano quelli dell’Unione Sovietica al suo apice. Non serve “raggiungere” Washington per competere con Washington. La storia dimostra il contrario.

Durante la Guerra fredda, Mosca non ebbe mai un’economia pari a quella americana. Eppure bastò a tenere il mondo con il fiato sospeso per quarant’anni. Oggi Pechino dispone di una base industriale, tecnologica e finanziaria molto più ampia di quella sovietica, con un vantaggio ulteriore: può aumentare la spesa militare senza dissanguare il proprio sistema economico. Questo rende il confronto più stabile, ma anche più duraturo.

Da qui nasce l’equivoco ricorrente sulla “multipolarità”. È vero: le potenze medie contano più di ieri. India, Brasile, Turchia, Arabia Saudita, Sudafrica hanno peso regionale, voce diplomatica, capacità militari crescenti. Ma influenza non significa vertice. Nessuna di queste supera, oggi, le soglie economiche e strategiche che definiscono una grande potenza sistemica. Nemmeno la Russia, il cui fallimento nel piegare l’Ucraina ha mostrato i limiti di una potenza più rumorosa che strutturale.

Il risultato è un mondo formalmente affollato, ma sostanzialmente binario. Ed è qui che il bipolarismo mostra il suo volto più inquietante: le periferie scompaiono. In un ordine a due, non esistono più zone davvero marginali. Ogni regione diventa potenzialmente un fronte, ogni investimento un segnale politico, ogni infrastruttura una posta strategica.

L’America Latina lo sta riscoprendo. L’avanzata economica e tecnologica della Cina viene letta a Washington come una violazione del cortile di casa, non diversamente da quanto accadeva durante la Guerra fredda. L’Asia orientale lo vive ogni giorno: Pechino usa pressione economica, diplomazia coercitiva e mosse incrementali per ridurre lo spazio di manovra dei vicini e allontanarli dagli Stati Uniti. In questo contesto, il mantra “non scegliamo” diventa un lusso sempre più raro. Nel cortile di una superpotenza, prima o poi, qualcuno ti chiede di schierarti.

Il ritorno del bipolarismo non implica automaticamente una guerra globale. Ma implica una competizione totale: su commercio, tecnologia, standard, sicurezza, narrazioni. È una rivalità che non si gioca solo tra capitali, ma dentro le società, le catene del valore, le piattaforme digitali. E che costringe tutti gli altri a ripensare la propria posizione.

Il mondo dei due soli non è più semplice di quello multipolare. È più prevedibile, forse, ma anche più esigente. Richiede scelte, rinunce, lucidità. E soprattutto impone di abbandonare una comoda illusione: quella di poter restare spettatori mentre le superpotenze riscrivono, ancora una volta, le regole del gioco globale.