C’è un decreto fantasma che appare e scompare nei corridoi di Palazzo Chigi. Entra all’ordine del giorno come “disposizioni urgenti per la proroga dell’autorizzazione alla cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari all’Ucraina”, poi svanisce in poche ore, tra imbarazzi, smentite e “errori materiali”.
Mentre a Roma si gioca con la gomma da cancellare, a Mosca si scrive un’altra pagina: il plenipotenziario immobiliare Steve Witkoff e il genero Jared Kushner siedono per cinque ore al tavolo con Vladimir Putin per discutere il “piano di pace” di Donald Trump. Un piano che, stando alle indiscrezioni, prevede cessioni territoriali ucraine e l’addio a ogni ipotesi di NATO per Kiev.
Altro che continuità occidentale: è in corso un viravolta strategico. Trump non è passato da falco a colomba; è passato da “armi finché serve” a “accordo rapido, purché convenga”. La sua ossessione non è salvare l’Ucraina, ma ridisegnare l’equilibrio globale: congelare il fronte europeo, rendere digeribile a Putin una “pace” favorevole a Mosca e, in cambio, convincerlo a non finire nelle braccia della Cina. L’obiettivo non dichiarato è chiaro: evitare un asse strategico Mosca–Pechino che trasformerebbe gli Stati Uniti in un gigante circondato. L’Ucraina, in questo schema, non è più una causa; è una moneta di scambio.
In questo quadro, l’Europa appare come la grande esclusa. Le ultime tornate di negoziati sono state costruite di fatto a tre: Washington, Mosca, Kiev. Bruxelles guarda dal vetro smerigliato, mentre Putin accusa gli europei di “sabotare” la pace e Trump li dipinge come i soliti frenatori.
L’Europa paga il conto della propria irrilevanza: non ha un piano di sicurezza autonomo, non ha una voce unica, si limita a reagire alle mosse altrui.
E Roma?
Roma fa quello che sa fare meglio da qualche decennio: si accoda.
Il decreto sulle armi all’Ucraina è il termometro perfetto. Da tre anni viene usato per prorogare in blocco l’autorizzazione a inviare sistemi d’arma a Kiev, in deroga alle norme ordinarie sull’export militare.
Quest’anno, però, qualcosa scricchiola: la Lega fiuta il cambio di vento, cavalca lo scandalo corruzione in Ucraina, si veste da partito “del dubbio” e chiede di rallentare. Salvini parla come un portavoce ufficioso del Cremlino, ma con l’occhio rivolto a Washington: se Trump molla Kiev, perché Roma dovrebbe restare l’ultima trincea del “whatever it takes”?
La maggioranza si spacca ma non si spezza. Meloni garantisce pubblicamente continuità con la linea atlantica, il ministro Crosetto ribadisce che il dodicesimo pacchetto di aiuti militari è già stato autorizzato, i tecnici preparano un nuovo decreto per la proroga.
Il risultato è una danza surreale: un governo che a parole difende l’Ucraina “fino alla fine”, ma nei fatti prende tempo, aspetta i segnali da Washington, adatta i toni in base al mood della Casa Bianca.
Il punto non è essere pro o contro l’invio di armi. Il punto è un altro: la politica estera italiana sta diventando mera eco della politica americana, qualunque essa sia. Quando Washington spingeva per armare Kiev, Roma correva. Ora che Trump tratta in proprio con Putin, escludendo l’Europa dal tavolo e proponendo un piano che molti alleati giudicano sbilanciato a favore di Mosca, Roma comincia a parlare di “attendere la mediazione americana”, “non fare strappi”, “vedere gli sviluppi dei negoziati”.
In questa sudditanza c’è qualcosa di pericoloso.
Perché se il vero obiettivo di Trump è indebolire l’Europa – riducendola a spettatrice, spezzandone la coesione, trasformandola da alleato in semplice mercato – per poter poi offrire a Putin una “garanzia” contro la Cina, allora il gioco non è più su Kiev. È sull’intero disegno europeo.
L’Italia, in questo scenario, rischia il ruolo di pappagallo strategico: ripete le parole d’ordine americane senza chiedersi se coincidano con i propri interessi. Si è allineata quando la linea era “resistere a oltranza”, si riallineerà se la linea diventerà “cedere territori in cambio di una pace comoda”. In mezzo, nessuna discussione vera su cosa significhi sicurezza europea, quale architettura sia sostenibile, quale posto vogliamo per noi nel mondo che viene.
Zelensky, dal canto suo, teme proprio questo: che la pace venga decisa “alle sue spalle”, in un gioco più grande, dove le sorti dell’Ucraina contano meno della partita fra Washington, Mosca e Pechino.
Lui chiede garanzie di sicurezza, un tribunale per l’aggressione, la restituzione dei bambini deportati; gli altri parlano di mappe, corridoi, asset congelati, sfere d’influenza.
L’Europa, e l’Italia con lei, hanno una scelta davanti: continuare a rincorrere l’agenda americana, anche quando questa ci marginalizza, oppure iniziare a ragionare con la propria testa. Non significa tradire Kiev, ma smettere di usarla solo come specchio del nostro posizionamento atlantico. Non significa rompere con Washington, ma essere alleati adulti, non clienti.
Trump ha fatto la sua virata. Putin, come sempre, ne approfitta. L’Europa balbetta. Roma ripete.
Ma la storia insegna che chi si limita a ripetere le battute scritte da altri, alla fine, resta fuori scena.
