Il Gay Pride di Budapest si è svolto ancora una volta sotto un cielo carico di tensione. Da un lato, una parata di colori, slogan, abbracci e musica: un inno, secondo gli organizzatori, alla libertà di espressione e all’orgoglio di essere sé stessi, anche oltre le categorie tradizionali di genere e sessualità. Dall’altro, una città blindata, una polizia in assetto antisommossa e, sullo sfondo, un governo che continua a erigere confini culturali prima ancora che politici.

Nel cuore dell’Europa, la terra di Santo Stefano vive una contraddizione lacerante. La manifestazione arcobaleno – a tratti più sostenuta da presenze internazionali militanti che dalla reale partecipazione sociale ungherese – assume i tratti di una ostentazione ideologica. La lotta per i diritti si intreccia a volte con narrazioni esasperate, che riducono la complessità della persona a bandiere identitarie, fluide e globali, ma anche invasive e incapaci di leggere il contesto.

Il problema non è la richiesta di rispetto, quanto il modo in cui questa viene veicolata. L’esibizione di simboli, corpi e gesti volutamente provocatori, sradicati da qualsiasi riferimento culturale nazionale, finisce per escludere il dialogo. Non solo con le istituzioni, ma anche con il popolo. E quando la minoranza si percepisce o si presenta come inavvicinabile e impermeabile al contesto, si crea una distanza che ostacola proprio quel processo di inclusione che si vorrebbe promuovere.

Dall’altra parte, però, la reazione del governo di Viktor Orbán è il riflesso speculare, altrettanto problematico. Chiudere la porta al dialogo, alimentare la retorica del nemico interno e rafforzare un’identità nazionale per esclusione significa fare delle minoranze il capro espiatorio di una debolezza politica. Orbán da tempo si presenta come baluardo della “vera Europa”, ma evita sistematicamente il confronto aperto con Bruxelles sul tema dei “diritti”. Usa la questione LGBT come leva propagandistica interna, ma non ha il coraggio di fare una scelta netta: né apertura, né rottura. Né accoglienza, né rifiuto definitivo dell’Unione Europea.

Così facendo, rende i protagonisti delle manifestazioni una sorta di martiri delle libertà. Li isola, li esaspera, li costringe a recitare un ruolo difensivo permanente. La politica dei muri (culturali, valoriali, perfino morali) cresce da entrambi i lati.

L’Europa, quella dei popoli e dei diritti, non può permettersi questa polarizzazione. La tutela della dignità umana e la promozione del bene comune esigono sobrietà, ascolto, rispetto reciproco. Non è con le sfilate dai toni eccessivi che si costruisce una vera cultura dell’inclusione, né con i proclami sovranisti che si difende la propria identità.

L’Ungheria merita di più. Merita una società capace di integrare senza svendere la propria storia. Merita uno Stato che non confonda il rispetto con l’imposizione, né la fermezza con la paura del confronto. E merita una Chiesa che, come ci ha insegnato Papa Francesco nel suo viaggio a Budapest, sappia essere madre di tutti, voce di misericordia, profezia di un’umanità riconciliata.