Un problema di attualità ecclesiale e sociale

Nelle crisi che attraversano alcuni istituti religiosi non è in gioco solo la fragilità di un uomo o lacerazioni di carattere personale. Il vero conflitto nasce quando il carisma, dono dello Spirito alla Chiesa, viene identificato con la figura del fondatore, fino a renderne intoccabile la caduta. È allora che la comunità si divide, non tra fedeli e infedeli, ma tra due diverse visioni di obbedienza, di santità e di Chiesa.

Nel cuore delle istituzioni religiose, il conflitto più lacerante non nasce quasi mai da una semplice divergenza di idee o da fragilità personali isolate. Esso emerge piuttosto quando viene intaccato il rapporto tra carisma, persona e Chiesa, cioè quando si rompe quell’equilibrio delicato attraverso cui lo Spirito Santo affida un dono non a un individuo per possederlo, ma a una comunità perché lo custodisca. È in questo spazio teologico che si colloca la crisi di alcuni fondatori: una crisi che non è riducibile né a una patologia psicologica né a una fisiologica pluralità di sensibilità, ma che assume i tratti di un vero e proprio conflitto ecclesiale.

La teologia cattolica ha sempre distinto con chiarezza il carisma dalla persona che lo riceve. Il carisma non coincide mai ontologicamente con il fondatore; lo precede come dono gratuito e lo supera come bene ecclesiale. Quando questa distinzione si attenua o viene rimossa nella coscienza individuale e collettiva, si produce una torsione pericolosa: il fondatore diventa misura del carisma, e il carisma viene identificato con la sua figura, le sue decisioni, perfino le sue fragilità. In quel momento, ciò che era nato come servizio alla Chiesa inizia a trasformarsi in appartenenza a un uomo.

È qui che il conflitto assume una natura specifica, che potremmo definire teologicamente carismatico-idolatrica. Non si tratta più di un conflitto ontologico nel senso tragico del termine, perché non siamo di fronte a due forme equivalenti di vivere il Vangelo; né si tratta semplicemente di un conflitto caratteriologico, legato a difetti personali o a stili di governo discutibili. Il punto decisivo è che entra in crisi il principio stesso di mediazione ecclesiale: l’obbedienza non è più orientata alla Chiesa attraverso il carisma, ma al fondatore come fonte ultima di senso, di identità e di verità.

Quando un fondatore scivola oggettivamente, tradendo la missione ricevuta — anche senza rinnegare verbalmente il Vangelo — il dramma non consiste solo nella sua caduta, ma nel modo in cui tale caduta viene elaborata dalla comunità. Se la comunità reagisce divisa tra chi difende l’uomo in nome di una presunta santità e chi cerca di salvaguardare il carisma nella fedeltà ecclesiale, allora il conflitto non è più personale: diventa strutturale. È la coscienza ecclesiale stessa a essere messa alla prova.

Teologicamente, questa divisione si spiega con due diverse concezioni della fedeltà. Da una parte vi è una fedeltà affettiva, simbolica, quasi sacrale, che vede nel fondatore il luogo originario e insostituibile dell’incontro con Dio. In questa prospettiva, riconoscere il tradimento del fondatore equivarrebbe a mettere in discussione la propria vocazione, la propria storia di grazia, persino l’azione dello Spirito. Dall’altra parte vi è una fedeltà propriamente ecclesiale, che distingue tra il dono ricevuto e la fragilità di chi lo ha mediato, e che accetta la dolorosa possibilità che il carisma sopravviva alla caduta del suo iniziatore.

È importante notare che il conflitto si radicalizza quando l’aura di santità del fondatore — costruita talvolta su pratiche devozionali, narrazioni edificanti o interpretazioni selettive della sua vita — viene usata come argomento teologico per sospendere il giudizio morale e canonico. In quel caso, la santità non è più intesa come cammino di conversione sotto lo sguardo della Chiesa, ma come immunità spirituale. Si produce così una forma di sacralizzazione indebita della persona, che la tradizione cristiana ha sempre riconosciuto come una tentazione ricorrente, soprattutto nei momenti di crisi istituzionale.

Il caso di P. Stefano Manelli, citato qui solo come esempio paradigmatico e non come oggetto di giudizio personale, mostra con particolare chiarezza questa dinamica. La persistenza di un’aura di santità attorno a una figura che ha oggettivamente tradito la missione ricevuta ha generato una frattura profonda non tanto tra “buoni” e “cattivi”, quanto tra due diverse visioni della Chiesa: una centrata sulla figura carismatica come garante ultimo della verità, l’altra sulla Chiesa come luogo del discernimento, anche quando esso comporta la smentita dolorosa di un padre spirituale.

In questa prospettiva, il conflitto non è risolvibile semplicemente attraverso il tempo o il silenzio. Esso richiede un lavoro teologico di purificazione, che restituisca al carisma la sua natura di dono ecclesiale e al fondatore la sua verità di uomo, bisognoso di giudizio, di conversione e, se necessario, di correzione. Solo quando il carisma viene liberato dall’idolatria della persona può tornare a essere fecondo; e solo quando la comunità accetta che la grazia non coincide con l’infallibilità umana può ritrovare unità.

In definitiva, il conflitto che nasce attorno a un fondatore che tradisce la sua missione ma conserva un’aura di santità non è un incidente marginale della vita religiosa. È uno dei luoghi in cui si misura la maturità ecclesiale di un istituto. Lì si decide se la fede è riposta in Cristo che agisce nella Chiesa, o in un uomo elevato, magari inconsapevolmente, a sostituto simbolico di Dio. E questa decisione, sempre dolorosa, è anche una grazia, perché costringe la comunità a scegliere tra l’idolo che rassicura e la verità che libera.