Nel cuore dell’estate politica, mentre l’opinione pubblica è distratta tra Europei e bollette, torna improvvisamente in scena uno dei più controversi cold case italiani: il delitto di Garlasco. Il nome di Alberto Stasi, condannato in via definitiva per l’omicidio di Chiara Poggi, riemerge dagli archivi giudiziari insieme a una richiesta di revisione basata su tracce di DNA rimaste in ombra. Ma più che giustizia, oggi a Garlasco pare interessi il calcolo politico.

Perché proprio ora? E perché con tanta eco mediatica? A ben vedere, la riapertura del caso capita a pennello come arma narrativa perfetta per sostenere una delle più ambiziose — e pericolose — riforme in cantiere: la riforma della giustizia targata Carlo Nordio, che vorrebbe, con l’alibi della modernizzazione, piegare definitivamente la magistratura al potere esecutivo.

La vecchia strategia del sospetto

Il meccanismo è noto: si prende un caso giudiziario controverso, lo si rilancia nel dibattito pubblico enfatizzando il potenziale errore, e lo si trasforma in prova regina del malfunzionamento del sistema. Garlasco, così come fu in passato per il caso Tortora o per le campagne contro i “magistrati politicizzati”, diventa la leva emotiva per delegittimare l’intera macchina giudiziaria.

Non importa che la riapertura del caso sia frutto di un iter processuale regolare. Conta il messaggio che passa: “se è stato condannato un innocente, allora tutto il sistema è corrotto, e dunque va riformato”. In questo quadro, la verità giudiziaria diventa secondaria: è la costruzione del consenso a guidare la narrazione.

Quando la giustizia si rimette in discussione è un bene

S’intenda: è un bene che la magistratura si interroghi su sé stessa, che sia disposta a verificare, a riaprire casi anche dolorosi, a correggere se necessario. Nessuno chiede l’infallibilità dei giudici. E se la procura di Brescia oggi può vagliare nuovi elementi, come le tracce di DNA non attribuite sotto le unghie della vittima, è proprio perché il sistema giudiziario ha meccanismi di revisione. È giusto, è sano, è doveroso.

Ma ciò che preoccupa non è la riapertura del procedimento. È il contesto comunicativo e politico in cui avviene: una campagna costruita per far passare l’idea che l’errore sia la norma, che i PM siano inaffidabili, che i magistrati siano in guerra contro i cittadini, e che quindi serva una “cura radicale” — quella scritta da Nordio e sostenuta dal governo.

Nordio, il ministro del garantismo selettivo

Il ministro Nordio, ex magistrato d’assalto diventato oggi araldo del garantismo governativo, cavalca da mesi l’idea che la giustizia sia uno strumento troppo autonomo, troppo lento, troppo incontrollabile. La sua riforma prevede:

  • separazione delle carriere tra PM e giudici,
  • limitazioni all’uso delle intercettazioni,
  • divieto di pubblicazione degli atti di indagine,
  • maggiore potere al Ministero nella nomina dei capi degli uffici giudiziari.

Una riforma che ha un cuore: ridurre l’indipendenza della magistratura, riportandola sotto il cappello dell’esecutivo. Il tutto in nome dell’efficienza e della tutela dei diritti degli imputati. Ma diritti garantiti da chi, se non da un giudice libero?

In questo contesto, il caso Garlasco diventa una cartolina mediatica perfetta: un giovane borghese, educato, che ha sempre proclamato la propria innocenza, condannato in un processo lungo e pieno di zone grigie. La sua figura diventa simbolica, funzionale, persino estetica: non più una persona, ma un paradigma utile a scardinare un intero impianto istituzionale.

Il vero bersaglio: l’autonomia del potere giudiziario

Quello che davvero è in gioco non è Stasi. È la relazione tra potere giudiziario e potere politico. È la tenuta del principio costituzionale della divisione dei poteri. È la capacità della giustizia di indagare non solo i reati comuni, ma quelli scomodi: mafie, corruzione, collusioni istituzionali.

La riforma Nordio, accoppiata alla delegittimazione sistematica della magistratura (colpevole di “fare politica” quando indaga politici), rischia di chiudere il cerchio: una giustizia più docile, meno incisiva, più controllabile. In altri termini: meno giustizia.

Non è un caso che parallelamente si taglino i fondi ai tribunali, si svuotino i presìdi di legalità al Sud, si normalizzino le voci critiche. Un potere giudiziario ridotto a notariato delle volontà governative è il sogno di ogni regime democratico autoritario.

L’indipendenza come ossigeno democratico

L’errore giudiziario è un fatto drammatico e possibile. Ma lo si combatte con più garanzie e più formazione, non con meno libertà per i magistrati. Ogni riforma che riduce l’autonomia della giustizia in nome della governabilità è un passo verso un sistema sbilanciato, dove il potere si autoassolve e la critica è un fastidio.

Garlasco è un nome che merita verità e rispetto. Ma non dev’essere il nome in codice di una riforma che rischia di soffocare la giustizia in Italia.