Mentre in Francia, Gran Bretagna, Belgio e Paesi Bassi le scuole diventano luoghi di prevenzione contro misoginia, machismo e violenza giovanile, in Italia il dibattito politico resta impigliato nello spauracchio della “propaganda LGBT”. È un cortocircuito grave: perché il problema urgente non è ciò che si dice a scuola, ma ciò che i ragazzi imparano ogni giorno, senza filtri, nei social e negli angoli più bui della rete.

C’è un’Europa che, pur tra mille contraddizioni, ha deciso di guardare in faccia una realtà scomoda: la violenza maschile giovanile non nasce all’improvviso, ma viene coltivata. Cresce in ambienti digitali saturi di pornografia, linguaggi d’odio, influencer tossici e narrazioni che confondono forza con dominio e mascolinità con disprezzo. Per questo Francia, Regno Unito, Paesi Bassi e Belgio hanno scelto una strada impopolare ma necessaria: portare questi temi dentro la scuola, prima che sia troppo tardi.

La decisione francese di proiettare nelle scuole secondarie Adolescence, la serie che racconta l’omicidio di una ragazza da parte di un tredicenne, non è un’operazione culturale né tantomeno ideologica. È una risposta educativa a un’emergenza sociale. Coltelli nelle cartelle, linguaggi violenti normalizzati, ragazze umiliate, insegnanti insultate. I numeri parlano chiaro: femminicidi, aggressioni, omicidi tra adolescenti. E dietro, quasi sempre, una miscela esplosiva di solitudine emotiva, frustrazione e modelli maschili deformati.

L’Europa educativa ha capito una cosa essenziale: il problema non è “fare educazione”, ma non farla. Lasciare che siano TikTok, Telegram, forum incel e predicatori della virilità tossica a formare l’immaginario affettivo e sessuale dei ragazzi significa abdicare a qualsiasi responsabilità adulta. Non si tratta di “rieducare i maschi” né di colpevolizzarli in blocco — errore che molti giustamente denunciano — ma di offrire parole, strumenti, spazi di confronto prima che la rabbia trovi sfogo nella violenza.

In Italia, invece, il dibattito pubblico sembra vivere su un altro pianeta. Ogni tentativo di parlare di relazioni, consenso, gestione delle emozioni viene subito risucchiato nella polemica sulla “propaganda LGBTQAI+”, come se il vero pericolo per gli adolescenti fosse una lezione sull’affettività e non l’accesso illimitato a pornografia estrema, misoginia algoritmica e mitologie della forza armata. È una rimozione collettiva che rasenta l’ipocrisia.

Il consenso informato dei genitori è sacrosanto, ed è giusto pretenderlo. Ma consenso non può significare messa al bando. Vietare a scuola ciò che è onnipresente online non protegge i ragazzi: li espone ancora di più. Significa lasciare che apprendano da soli, senza mediazione adulta, senza linguaggio critico, senza contesto. È come chiudere gli occhi davanti a un incendio perché si teme di parlare di fuoco.

Le esperienze europee mostrano anche le ambiguità del percorso: il rischio di approcci ideologici, di agenzie esterne troppo politicizzate, di semplificazioni. Ma la risposta non è il silenzio. È la vigilanza, la formazione seria degli insegnanti, la continuità educativa. L’affettività non si insegna in una lezione spot, ma in un clima culturale che riconosce il valore delle emozioni, dei limiti, della responsabilità reciproca.

C’è un dato che dovrebbe scuotere tutti: una quota crescente di giovani maschi associa il rispetto alla violenza, la virilità all’aggressività, la frustrazione al diritto di punire. Questo non nasce a scuola. Nasce altrove. E se la scuola tace, qualcun altro parlerà al posto suo.

Mediafighter nasce per smascherare le false narrazioni. Qui la più pericolosa è quella che confonde la difesa dei valori con la rimozione dei problemi. Educare all’affettività non è un lusso progressista né un cedimento ideologico: è una misura di prevenzione contro l’odio, la violenza e la morte. Continuare a fare finta che il problema sia “la propaganda” mentre i ragazzi crescono armati — di coltelli o di disprezzo — non è prudenza. È irresponsabilità.