Ci sono incontri che sembrano nascere già con un’immagine incisa: il balcone affacciato sul lago di Castel Gandolfo, un Papa americano di origini siciliane, un presidente ucraino che porta nel volto la stanchezza dei giorni e nei gesti una speranza che somiglia all’ostinazione. Il terzo colloquio fra Leone XIV e Volodymyr Zelensky si colloca precisamente in questo spazio simbolico: un altrove rispetto alle capitali che negoziano, ma non un rifugio. Piuttosto, una soglia.
Leone XIV parla di «pace giusta e duratura», parole che la diplomazia ama e teme perché obbligano a guardare in faccia ciò che la guerra ha reso irrimediabilmente evidente: la pace non è un ritorno allo stato precedente, ma una creazione nuova, frutto di verità e non di anestesia. Zelensky, dal canto suo, arriva dopo un passaggio londinese con Starmer, Macron e Merz, e prima dell’udienza a Palazzo Chigi. L’impressione è quella di un uomo che si muove su un filo teso: da un lato la resistenza militare, dall’altro la necessità di non precipitare nel vuoto diplomatico.
E tuttavia è su un tema preciso che la Santa Sede continua a incidere: lo scambio di prigionieri, la restituzione dei bambini deportati, la missione di pace affidata al cardinale Matteo Zuppi, cui Leone XIV ha deciso di dare continuità. In questa insistenza non c’è solo pietà; c’è un metodo teologico-diplomatico che Roma conosce bene: partire dagli ultimi, da coloro che la geopolitica considera “effetti collaterali”, per scalfire il muro dei contendenti. È spesso da lì che filtrano brecce inaspettate.
Zelensky lo sa e infatti ringrazia pubblicamente il Papa: per le preghiere, per l’attenzione ai giovani ucraini, per la disponibilità a espandere le missioni umanitarie. Ma soprattutto lo invita a Kiev. Un invito che, se accolto, avrebbe il peso di un gesto epocale: non solo un viaggio apostolico, ma un atto morale che ridisegnerebbe l’intera percezione della guerra. Per ora resta una possibilità sospesa, come molte cose in questo dicembre europeo.
Poi c’è quello scambio di auguri che sembra una fenditura di umanità:
«Buon Natale», dice il Papa.
«Lo spero», risponde Zelensky.
Due parole: un auspicio e una confessione. Il Papa pronuncia il Natale come un dono, il presidente come una condizione che non gli appartiene più del tutto. In mezzo, sta l’abisso che separa chi vive la festa e chi la attende da un fronte.
Castel Gandolfo, con le guardie svizzere in picchetto e il presepe ucraino consegnato come dono, appare così come un piccolo laboratorio di pace, dove la liturgia del protocollo incontra la vulnerabilità dei popoli. È forse per questo che, al termine del colloquio, i due si affacciano insieme dal balcone sul lago. Non è un gesto politico: è una breve, silenziosa dichiarazione di realtà. Due uomini, una guerra che continua, un mondo che li guarda.
E la domanda, quella vera, non riguarda chi cederà cosa sul tavolo dei negoziati, ma quale forma avrà quella “giustizia” che il Papa invoca. Perché, come sempre nella storia, è lì che si decide se il Natale potrà davvero arrivare oppure no.
