Quando l’informazione cambia bandiera

Ci sono passaggi di proprietà che restano confinati nelle pagine economiche e altri che, invece, toccano il nervo scoperto di un Paese. L’ipotesi – ormai più che un’ipotesi – dell’acquisto del gruppo Gedi da parte di Theodore Kyriakou, armatore greco e proprietario di Antenna Group, appartiene senza esitazioni alla seconda categoria. Non perché sia in discussione soltanto il destino di un grande conglomerato editoriale, ma perché in gioco c’è la forma stessa dell’informazione italiana e il suo rapporto con la democrazia.

Le reazioni delle redazioni di Repubblica e La Stampa – scioperi, assemblee, prese di posizione pubbliche – non sono un riflesso corporativo né una resistenza nostalgica. Sono il segnale che chi fa informazione ha percepito una discontinuità profonda. Gedi non è un editore qualunque: è un’infrastruttura civile, un luogo simbolico in cui per decenni si sono formate coscienze, linguaggi, categorie politiche e culturali. Cambiarne la proprietà significa, inevitabilmente, incidere sul modo in cui il Paese racconta sé stesso.

Il timore che attraversa le redazioni non riguarda tanto la figura personale di Kyriakou, che non è un militante politico né un ideologo riconoscibile, quanto il modello industriale che egli rappresenta. Antenna Group è un grande conglomerato privato, cresciuto in un contesto – quello greco – dove la concentrazione dei media e il rapporto opaco tra informazione, potere economico e politica sono da anni oggetto di osservazione critica da parte di organismi internazionali. L’ansia, in altre parole, non è quella di una censura esplicita, ma di una trasformazione più silenziosa: l’informazione che smette di essere funzione democratica e diventa prodotto, asset, strumento di equilibrio tra interessi.

Repubblica e La Stampa portano con sé una tradizione editoriale che non è neutra e non ha mai preteso di esserlo. Sono state voci della borghesia laica, progressista, repubblicana; hanno ospitato conflitti, inchieste, contraddizioni; hanno svolto una funzione di controcanto, talvolta scomoda, rispetto ai poteri dominanti. È proprio questa eredità a rendere la prospettiva di un cambio di proprietà così sensibile. Non si tratta di difendere una linea politica, ma un’idea di giornalismo che non accetta di essere addomesticato.

Il modello Antenna, per come è percepito, si fonda su un’idea di informazione generalista, bilanciata, spesso intrecciata con l’intrattenimento, in cui la neutralità è presentata come valore in sé. Ma è qui che nasce la frattura culturale. Perché in democrazia la neutralità assoluta non esiste: esiste piuttosto la responsabilità di scegliere che cosa raccontare, che cosa approfondire, che cosa mettere in prima pagina e che cosa relegare ai margini. Il vero potere editoriale non sta nel dire apertamente cosa pensare, ma nel decidere di che cosa vale la pena parlare.

È questo il punto che rende lo sciopero delle redazioni qualcosa di più di una vertenza interna. In un Paese come l’Italia, segnato storicamente da conflitti d’interesse, editori “impuri” e intrecci tra informazione e potere, l’arrivo di un grande editore straniero non può essere valutato solo in termini finanziari. Non è l’origine geografica a preoccupare, ma la possibilità che si consolidi un modello in cui il giornale diventa un elemento di un portafoglio industriale più ampio, funzionale a equilibri economici e relazionali che nulla hanno a che fare con il diritto dei cittadini a essere informati.

La domanda che attraversa questa vicenda, allora, è più radicale di quanto sembri. Non è semplicemente che cosa farà Kyriakou di Gedi, ma che cosa l’Italia è disposta ad accettare come futuro della propria informazione. Se il criterio dominante diventa l’efficienza, la sostenibilità economica, la riduzione del conflitto, il rischio è quello di una stampa formalmente libera ma sostanzialmente innocua, incapace di disturbare, di interrogare, di mettere in crisi le narrazioni dominanti.

Per questo la protesta delle redazioni va letta come un avvertimento civile. L’informazione non è una merce come le altre, non è un container che può cambiare porto senza lasciare traccia. È un bene comune, fragile, esposto, che vive di credibilità e di fiducia. Quando cambia padrone, non cambia solo una firma in calce a un contratto: cambia il respiro di una democrazia.

Ed è per questo che la partita Gedi non riguarda solo giornalisti ed editori. Riguarda tutti.