Nel nuovo ordine mondiale che il secondo mandato di Donald Trump va delineando, emerge una configurazione inquietante: un ritorno al potere concentrato nelle mani di poche grandi potenze — Stati Uniti, Russia e Cina — che, più che competere, scelgono di colludere per spartirsi il mondo. Un concerto ristretto di leader autoritari e sovranisti, ispirato alla logica ottocentesca delle sfere di influenza, rischia di marginalizzare proprio quei soggetti che più avrebbero bisogno di rappresentanza: l’Europa e il Sud globale.
L’Europa, paradossalmente, è al tempo stesso troppo grande per essere ignorata e troppo debole per essere protagonista. Sotto il nuovo corso trumpiano, gli alleati storici degli Stati Uniti sono trattati come concorrenti da sottomettere: basti pensare alla pressione economica esercitata su Canada e UE, o alla minaccia di sgretolare la NATO se i partner non si piegano a una visione di sicurezza esclusivamente americana. L’Unione Europea, priva di un’unica voce diplomatica e militare, rischia di essere relegata a osservatore impotente di negoziati bilaterali tra Washington, Pechino e Mosca, che ridisegnano il mondo ignorando Bruxelles.
Ma ancor più drammatica è la posizione dei paesi del Sud globale. In un mondo organizzato per concerti tra giganti, le nazioni medie o piccole diventano oggetti di scambio, anziché soggetti di diritto. Il destino dell’Ucraina viene discusso senza Kiev. I paesi africani sono trattati come mercati o retrovie strategiche da contendere con infrastrutture e gasdotti, ma non come interlocutori politici. L’America Latina, culla di aspirazioni democratiche e di rinnovamento sociale, viene rimossa dal tavolo, come la Spagna nel 1818 ad Aix-la-Chapelle.
Questa impostazione non tiene conto di una realtà ormai irreversibile: il mondo è troppo interconnesso, troppo multipolare, troppo consapevole per accettare un ordine imposto dall’alto. Le potenze medie come l’India, il Brasile, il Sudafrica e lo stesso Giappone stanno già costruendo reti alternative, coalizioni regionali, e istituzioni proprie. Ignorarle non è solo ingiusto: è strategicamente miope.
L’Europa dovrebbe cogliere questa fase di collusione globale come un’occasione per ridefinire sé stessa. Non più solo come cuscinetto tra imperi, ma come promotrice di un ordine multilaterale che dia voce anche ai dimenticati. Allo stesso modo, il Sud globale ha oggi la forza politica, economica e culturale per smettere di essere la “materia prima” delle geopolitiche altrui e iniziare a proporre alternative di convivenza, sviluppo e cooperazione.
Il mondo che si profila non può essere governato da un nuovo Congresso di Vienna. O si costruisce un ordine inclusivo o si torna, lentamente ma inesorabilmente, alla legge della giungla mascherata da diplomazia tra “pari”.
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